El Alamein

EL ALAMEIN IL CORAGGIO OPPOSTO ALLA FORZA
(articolo pubblicato sul quotidiano il “Tirreno” il 20 ottobre 1984)

Quarantadue anni fa, ad Alamein, un centinaio di chilometri ad ovest del Nilo, è stata combattuta la più grande battaglia in terra d’Africa della II guerra mondiale. Il fronte, su terreno completamente desertico, era compreso, da nord a sud, fra la costa del Mediterraneo e il ciglio della grande depressione di El Qattara; aveva uno sviluppo complessivo di circa 60 km. (40 in linea d’aria) ed era inaggirabile perché di la dalla sua estremità meridionale la natura del suolo non si prestava al transito di reparti meccanizzati.
Su questa linea era schierata a difesa l’Armata italo – tedesca con 96.000 uomini, meno di 600 cannoni, poco più di 500 carri armati; la fronteggiava l’VIII Armata britannica con 220.000 uomini, 1100 cannoni, 1300 carri.
Ancor più grande la sproporzione in mezzi cingolati e blindati, pezzi controcarro, aerei, munizionamento, autoveicoli. Tenuto conto anche della qualità delle armi e dei materiali, a nettissimo vantaggio dei britannici, la superiorità in campo dell’avversario risultava pressoché schiacciante.
Consapevole di ciò il comandante dell’VIII Armata, Montgomery, pianificò una battaglia statica intesa a distruggere sul posto progressivamente, le fanterie e i carri schierati a difesa. Due potenti forze d’assalto avrebbero attaccato contemporaneamente a nord e a sud del fronte, con il compito di aprirvi, ciascuna, quattro corridoi e costituire teste di ponte da rafforzare, immediatamente con gran numero di corazzati e artiglierie.

Il fronte di El Alamein con le forze schierate il giorno 23 ottobre

UNA SUPERIORITÀ SCHIACCIANTE

Le nostre forze mobili costrette ad attaccare in condizioni sfavorevoli questi fortilizi irti di bocche di fuoco sarebbero andate incontro a quella progressiva distruzione che si voleva ottenere; dopo di che non sarebbe stato difficile mettere fuori causa le rimanenti fanterie, oltretutto dotate di scarsa mobilità a causa della penuria di automezzi.
Nel fatto la battaglia si svolse in modo alquanto diverso. Si concluse comunque con l’inevitabile vittoria dell’attaccante che come è noto, dopo dodici giorni di accaniti, convulsi combattimenti riuscì a mettere fuori causa il nerbo dell’Armata italo – tedesca costringendone i resti a una lunghissima ritirata.
Assai meno note, invece, le vicende degli aspri scontri avvenuti a sud; vicende che videro i paracadutisti della Folgore respingere vittoriosamente ogni assalto, nonostante l’enorme preponderanza degli attaccanti. Un successo, questo, tuttora assai poco conosciuto nei suoi termini reali e del quale è giusto o doveroso mettere in luce l’importanza e l’effettivo significato.
All’inizio della battaglia la Folgore presidiava un quarto dell’intero fronte, quello più a sud. I paracadutisti in linea erano circa 3.000 con 80 cannoni prestati, da altre unità, poche decine di controcarro (integrati da piccoli reparti di bersaglieri), pochissimi autoveicoli, proiettili contati. Ne integravano la forza il 28° Pavia e un altro battaglione, il famoso 31° Guastatori.

Proporzione forze in campo

L’IMPERATIVO ERA “NON MOLLARE”

Lo schieramento sul terreno si articolava in una linea principale (di resistenza) preceduta da un’altra (di sicurezza), sottilissima. Entrambe protette da campi minati distavano fra loro da uno a tre chilometri. Sul retro, lontane, stazionavano le divisioni corazzate Ariete e 21° Panzer il cui tempestivo intervento risultava piuttosto aleatorio e che comunque non si rese necessario.
Di fronte alla Folgore, incaricato dell’assalto a sud, stava il 13° Corpo, articolato su 4 divisioni, con più di 50.000 uomini, 400 cannoni, 350 carri, 250 blindati, munizioni praticamente illimitate, migliaia di automezzi. A suo ulteriore vantaggio il totale dominio dell’aria e, cosa non meno importante, il terreno, favorevole all’impiego in massa dei corazzati, senz’altri ostacoli che le Mine.
Per i 3000 paracadutisti diluiti su un fronte di 15 km. e organizzati in centri di fuoco, di assai modesta consistenza e molto intervallati, il problema della difesa risultava davvero arduo. Oltre al resto, quasi tutti erano affetti da dissenteria e seriamente indeboliti da tre mesi di buca.
Tutti, comunque, erano pronti a sostenere l’urto, quale che fosse, ben decisi ad opporsi con ogni mezzo, allo strapotere avversario. Simbolo o impegno per ciascun uomo della divisione la consegna Che il comandante, Enrico Frattini, aveva sintetizzato in due semplici parole: “non mollare”.
L’offensiva britannica largamente prevista, ebbe inizio alle 21,40 del 23 ottobre con un formidabile tiro di artiglieria. Nelle parole di un veterano del deserto, il capitano Pietro Santini del 31° Guastatori: “Assistevamo, quasi ammirati, allo spettacolo che dimostrava una potenza di fuoco mai vista prima in Africa Settentrionale. All’alba, una densa nube di fumogeni che poi, diradatasi, svelò un mare di carri armati e blindati davanti alle nostre linee, a perdita d’occhio”.
Allungatosi il tiro, intere brigate di carri e fanti mossero all’attacco investendo sul centro, della linea di sicurezza, le compagnie 6 e 19. La lotta si accese subito furibonda. Come dice il serg. magg. Sisto Bodriti: “C’erano mine che esplodevano, mezzi corazzati e cingolati che s’incendiavano, uomini che saltavano in aria con urla disumane”.
I paracadutisti si accanirono principalmente sulla, fanteria in modo da dissociarla dai carri e, combattendo selvaggiamente, vi riuscirono quasi dovunque. Durante la notte un solo corridoio, dei quattro preventivati dall’avversario, poté essere aperto; ed ebbe allora inizio l’azione di contrassalto ai mezzi corazzati.
Attaccare carri armati con ordigni lanciati a mano non è facile. Nelle parole del caporale Vincenzo Girolami: “Dalla paura, i denti mi battevano talmente forte che sembravano una motocicletta. Ma i carri erano nelle nostre postazioni e bisognava far qualcosa. Così saltai, fuori, come gli altri dandoci dentro con le bombe a mano”.
I carristi britannici, che non si aspettavano di essere contrassaltati a uomo, dovettero improvvisare caroselli per sottrarsi agli attacchi; pagarono tuttavia a caro prezzo la loro azione. “Il contingente incaricato di far breccia, subì pesanti perdite a causa del cannoneggiamento e della fanteria della divisione Folgore che resistette ferocemente”. Si legge nella storia, del reggimento corazzato Royal Scots Greys.
Ma con il sopraggiungere della luce, finite ovunque le munizioni, i difensori furono infine tacitati, gli attaccanti poterono avanzare e investire sul tergo un’altra compagnia, la 22. Ancor lontana però, intatta, rimaneva la linea di resistenza che, secondo i piani, sarebbe dovuta crollare prima dell’alba. Il potente assalto contro il centro della Folgore aveva subito un primo, decisivo colpo d’arresto.
Di fronte a non più di 350 paracadutisti intere brigate avevano dovuto segnare il passo perdendo lunghe, preziose ore, e con falcidie talmente elevate in uomini e carri da costringere i loro Comandi a rivoluzionare drasticamente il piano d’attacco.

Linea del fronte tenuto dalla Folgore

Il Generale Frattini Comandante della Divisione Folgore

Paracadutisti 6ª compagnia con al centro il Ten. M.O.V.M. F. Brandi

Carro britannico distrutto dalla Folgore

MEMORABILE CONTRASSALTO DEI FRANCESI

Durante la stessa notte un altro violento attacco, affidato a due battaglioni francesi della Legione Straniera sostenuti da una colonna di carri e blindati, fu sferrato contro l’estrema ala destra della Folgore. I fanti, per un totale di oltre 1300 uomini, aggirarono da sud le difese, tenute dal V battaglione, e sfociando sulla piana di Naqb Rala le investirono da tergo. Senza indugio il comandante del V, Giuseppe Izzo, mobilitò la forza di rincalzo (circa 3 plotoni) costituita appunto per questa eventualità, la suddivise in due gruppi e postosi alla testa di uno di essi mosse al contrassalto.
Erano meno di cento uomini che, su terreno aperto, affrontavano avversari quindici volte superiori. La disparità delle forze e del volume di fuoco era tale che il caporal maggiore, Luigi Mozzato, in posizione arretrata e in grado di abbracciare con un sol colpo d’occhio il terreno dello scontro, fu indotto a un più che giustificato pessimismo: “La sproporzione era così evidente da far pensare che il nemico sarebbe avanzato molto in fretta, giudicai che ben presto ci saremmo trovati in mezzo anche noi, e con ben poche speranze”. Accadde invece il contrario.
Suddividendosi in piccoli nuclei e, facendo ricorso, oltre all’audacia, ai più diversi stratagemmi, i difensori riuscirono a contenere l’impeto degli antagonisti, poi a farli indietreggiare riuscendo, infine, dopo tre ore di cruenti scontri, a metterli in rotta. I Legionari, lasciarono sul terreno circa 300 uomini, i paracadutisti perdettero i due terzi degli effettivi. Consistenti vuoti furono prodotti anche nella colonna mobile di supporto.
Risoluto a ottenere uno sfondamento decisivo, nella tarda serata del 24 l’avversario tornò all’attacco lanciando imponenti forze contro il centro della linea di resistenza, presidiato dalle compagnie 20 e 21. Benché opposti a grandi masse di fanti i paracadutisti riuscirono a mantenere il possesso dei centri di fuoco meno avanzati e a contenere in ristretto spazio la testa di ponte creata dagli avversari. Quanto ai corazzati fu loro impedito di raggiungere la fanteria, presi sono tiro alle minime distanze da controcarro e mortai, soprattutto da due obici da 100 giunti in linea quel giorno stesso su iniziativa del comandante della 21ª, Gino Bianchini, furono distrutti a decine mentre attraversavano l’unico, varco aperto dai genieri nel campo minato e costretti a ritirarsi.
Egual sorte toccò, all’imbrunire del giorno successivo, ai fanti (circa una brigata) rimasti nella testa di ponte. Riorganizzati i decimati residui delle sue compagnie il Comandante del VII battaglione, Carlo Mautino, ordinò al trombettiere di suonare la carica e un risoluto contrattacco fece ripiegare in disordine gli avversari ristabilendo la situazione.
I combattimenti, soprattutto nei centri di fuoco più avanzati, erano stati aspri, sanguinosi, e ne erano rimaste tracce raccapriccianti. Nelle parole del Tenente Giuseppe Berti: “Ovunque sparsi, cadaveri. armi spezzate e contorte, due nostri artiglieri erano immobili, avvinghiati a un pezzo da 47 quasi posassero per un monumento”. Molto gravi le perdite avversarie: centinaia di uomini, decine di carri ridotti a carcasse fumanti. Meno di 300 paracadutisti erano bastati a infrangere il grande assalto alla linea di resistenza.

Legionari francesi

El Alamein 23 ottobre 1942: il Ten Di Gennaro chiede l’onore al Magg. Izzo di partecipare con i suoi artieri paracadutisti al contrassalto di Naqb Rala (disegno del Ten. Col. Paolo Caccia Dominioni già Comandante del 31° Btg. guastatori d’Africa)

60 anni dopo il Ten. Di Gennaro, ora presidente della sez. A.N.P.d’I. di Civitavecchia, dona la bandiera italiana, nel Sacrario di El Alamein, al Presidente della Repubblica C.A. Ciampi

IMPARI LOTTA NEL DESERTO

Falliti i precedenti tentativi l’avversario insistette organizzando potenti colpi di maglio contro il saliente dì Munassib, presidiato dal IV battaglione. Nel pomeriggio del 25 mossero all’attacco due reggimenti corazzati, forti di 90 unità, che operando in piena vista vennero falcidiati in breve tempo (22 carri distrutti). Ma l’assalto più violento si scatenò la sera, preparato da un terrificante concentramento di artiglieria: “Munassib sembrava un vulcano in eruzione”. Scrisse Felice Valletti, comandante del IV.
Gravitando principalmente sulla 11ª compagnia, due battaglioni di fanti con carri e blindati dilagarono fra le piccole e distanziate postazioni dei paracadutisti sommergendoli. Si accese una lotta senza quartiere, che proseguì per tutta la notte. “Alle intimazioni di resa, dice Tonino Marinoni, rispondevamo gridando Folgore! e sparando”. Nell’impari lotta la compagnia fu distrutta e i superstiti, 13 in tutto, ritirati dalla fornace. Ma gli attaccanti paurosamente falcidiati, dovettero desistere limitandosi, il giorno 26, a un attacco senza mordente alla 10ª compagnia.
Dopo di che, convintisi che sfondare a sud era impossibile, i Comandi britannici ritirarono le forze corazzate accontentandosi di saggiare le difese con puntate di fanteria che si susseguirono fino alla notte del l-2 novembre.
Al prezzo di un terzo dei suoi effettivi l’esile linea della Folgore aveva retto all’urto di un intero Corpo d’Armata infliggendo all’avversario perdite valutabili in circa 2500 uomini, più di 100 carri, 150 blindati. Gli uomini della Divisione avevano tenuto fede a se stessi. Ne si smentirono quando, per ordini dall’alto, dovettero abbandonare le posizioni. Per quattro giorni e tre notti ripiegarono combattendo, appiedati, portando a spalla, le armi, trainando i pezzi a braccia, senza alcun rifornimento di munizioni e viveri, con l’acqua di dotazione che bastò a malapena per le prime ventiquattr’ore.

Batteria controcarro con pezzo da 47/32 comandata dall’allora Ten. Gianpaolo padre dell’attuale Vice Presidente Nazionale A.N.P.d’I.

i “ragazzi” della Folgore nelle loro postazioniOggi dopo quarant’anni i sopravvissuti ricordano e tacciono. Custodiscono nel cuore l’immagine di quel pezzetto d’Italia, il loro, che tutti insieme costruirono nel deserto egiziano; una comunità dove i pezzi grossi erano primi nell’affrontare rischi e assumersi responsabilità, dove la solidarietà reciproca non aveva confini. Perché questo fu per loro la Folgore: una piccola, meravigliosa Patria per la quale, valeva davvero la pena di vivere o di morire.

Renato Migliavacca